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Biosfera, L’ambiente che abitiamo. Ne parliamo con l’urbanista Enzo Scandurra

Biosfera, L'ambiente che abitiamo. Ne parliamo con l'urbanista Enzo Scandurra
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Enzo Scandurra, romano, è professore ordinario di urbanistica presso l’università Sapienza di Roma, urbanista, saggista e scrittore.

Ha insegnato per oltre quarant’anni Sviluppo sostenibile per l’ambiente e il territorio. Diverse volte Direttore del Dipartimento di Architettura e Urbanistica, collaboratore de «il manifesto» e di numerose riviste scientifiche, ha scritto diversi saggi sul tema della città e dello sviluppo sostenibile.

Tra i suoi ultimi libri: Storie di città (con Giovanni Attili et al.), Ed. Interculturali, 2007; Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città Aperta, 2007; Modello Roma. L’ambigua modernità (con altri), Odradek, 2007; Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma (con M. Ilardi), manifestolibri, 2009; Lungoilfiume (con altri), Franco Angeli, 2009, Vite periferiche. Solitudine e marginalità in dieci quartieri di Roma, Ediesse, 2012, Fuori squadra (2017). Per Derive e Approdi ha scritto  Splendori e miserie dell’urbanistica (con Ilaria Agostini, 2018) e l’ultimo volume Biosfera, l’ambiente che abitiamo, Crisi climatica e neoliberismo, (pp. 208, Collana Habitus, € 12.75) scritto insieme a Ilaria Agostini e Giovanni Attili“Una illuminante introduzione alla formazione scientifica dei nuovi giovanissimi ribelli”.

Leggiamo nel volume: “La Biosfera è quel luogo singolare dell’Universo dove è nata e si è sviluppata la vita. È un prodotto del Sole. Noi, insieme a tutte le altre specie viventi, siamo l’esito di una sua lunga evoluzione durata milioni di anni nel corso dei quali sono nate e poi si sono estinte diverse specie di animali e vegetali, creando la meravigliosa biodiversità che ci circonda.

L’equilibrio delicato di questo ecosistema è oggi a rischio e con esso la sopravvivenza della nostra specie, a causa dei cambiamenti climatici prodotti dall’eccesso di gas serra che stanno alterando equilibri millenari. Occorre invertire rapidamente i presupposti di questo sviluppo, se non vogliamo che la Terra torni a essere quell’ambiente inospitale precedente alla comparsa della vita.

Biosfera, L'ambiente che abitiamo. Ne parliamo con l'urbanista Enzo Scandurra

Per farlo occorre imboccare da subito la via della riconversione ecologica del nostro modello di sviluppo. Un cambiamento che presuppone di mettere in discussione i modelli di vita e il modo di pensare alla natura; in sostanza l’intera civiltà occidentale, fondata sul dominio della natura e delle sue leggi”.

Con Enzo Scandurra, in questa intervista, abbiamo provato a capire in concreto cosa significa davvero “ripensare” completamente il nostro modello di sviluppo e come abitare la biosfera.

Partiamo dal titolo del libro: Biosfera, l’ambiente che abitiamo. Come stiamo messi realmente con l’ambiente e con i cambiamenti climatici che ancora molti si ostinano a negare?

Cambiamenti climatici, anche più devastanti, si sono succeduti nel corso dei milioni o miliardi di anni nella Biosfera. Bisogna precisare che per cambiamento climatico si intende un’alterazione che persista per almeno un decennio e che coinvolga ogni parte del pianeta. Altrimenti si tratta semplicemente di fenomeni meteorologici che si svolgono periodicamente in parti limitate del globo terrestre e che hanno durata effimera. Precisato ciò, non c’è dubbio che ogni anno assistiamo al superamento di record storici di temperatura, a fenomeni estremi per piogge o intensità di perturbazioni, scioglimento di ghiacciai storici, ecc., che ci fanno pensare che siamo nel bel mezzo di un serio e reale cambiamento climatico.

Chi si ostina a legarlo sono o i gruppi di potere legati all’uso dei fossili o a persone ben pagate per farlo, oppure persone normali prese dal panico di una fine imminente del pianeta e che dunque preferiscono rimuovere la questione. Ci sono infine pseudo-scienziati che confidano nel potere salvifico della scienza che saprà in grado di risolvere ogni problema (per la precisione da essa stessa creato). A costoro andrebbe ricordato come anche i dinosauri che hanno abitato questo pianeta per un lungo periodo di anni (circa 160 milioni di anni) si sono estinti perché qualcosa li ha resi inadatti a sopravvivere (oggi diremmo che erano diventati insostenibili).

A che punto siamo con la “capacità di sopportazione” dell’ecosistema?

Questa è una domanda cui potrebbe solo rispondere un signore dotato di una buona sfera di cristallo. In passato c’è chi si è sbizzarrito a calcolare questa capacità di sopportazione (CS). Barry Commoner ad esempio ha elaborato la seguente espressione: I=PxAxT≤ CS. Dove I rappresenta una qualche misura dell’inquinamento, P la popolazione, A la quantità di merci e servizi per individuo e T un fattore tecnologico che misura l’inquinamento associato all’unità di merce o servizio prodotto.

Naturalmente si tratta di una pura astrazione deterministica e impossibile da calcolare. Il Rapporto del MIT (Massachussets Institute of Tecnology di Boston), The Limits to Growth, commissionato nel 1972 dal Club di Roma, tentò di fare una previsione su quando si sarebbe verificato il collasso dell’intero pianeta. Si basava su un modello deterministico e contemplava cinque variabili fondamentali il cui aumento era orientato dai trend del passato (esponenziali). Le conclusioni erano alquanto drammatiche: il pianeta sarebbe collassato verso il 2100 per l’esaurimento delle risorse o l’aumento di inquinamento o la scarsità delle terre fertili che assicuravano i prodotti alimentari, ecc. Non c’è qui lo spazio per fare le critiche a quel modello che ebbe però l’indiscussa capacità di smuovere molte coscienze sul tema della minaccia ambientale.

Nel 1987 il Rapporto Brundtland, un Rapporto commissionato dall’ONU, per descrivere lo stato del pianeta, affermò che non era tanto l’esauribilità delle risorse a minacciare il mondo (perché le risorse sono almeno in parte sostituibili) quanto l’equilibrio della biosfera, ovvero la vulnerabilità della qualità dell’ambiente e la stabilità dell’ecosistema planetario. Da quel Rapporto è nato il concetto di Sviluppo Sostenibile. In conclusione per rispondere alla domanda: è impossibile (oltrechè ingenuo) stabilire la capacità di sopportazione dell’ecosistema; di più, se lo fosse sarebbe assolutamente inutile perché ciò che veramente interessa non è conoscere la data della fine del mondo (più precisamente della nostra specie) quanto i provvedimenti da prendere per scongiurarla.

Sensibilizzare sulla sostenibilità è già complesso, come convinciamo le multinazionali a fare scelte “green” ?

Credo che la battaglia vada condotta contemporaneamente su due fronti. A livello mondiale perché i movimenti ambientalisti (Greta Thunberg in testa) facciano sempre più pressione perché i governi mondiali prendano decisioni collettive e condivise per rispettare gli accordi della Conferenza parigina sul Clima organizzata dall’IPCC (Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico) che prevedono un innalzamento massimo della temperatura non oltre 1,5-2°C per il 2100.

Ma questo obiettivo non è per niente semplice e ha complicazioni imprevedibili. Non è semplice per la resistenza di alcuni Stati nazionali che non intendono ridurre l’emissione di CO2. Ha effetti imprevedibili perché comporterebbe una riconversione dell’attuale produzione in senso ecologico che a sua volta comporterebbe, almeno su un periodo non breve, costi sociali enormi.

Un mio carissimo e autorevole collega aggiunge inoltre che pilotare il cambiamento climatico, tentando di limitare l’aumento della temperatura media globale, equivale a proporre un dispotismo climatico mondiale difficile da realizzare. Detto tutto ciò non c’è altra soluzione che insistere, a livello di movimenti ambientalisti, per convincere gli Stati a rispettare le decisioni prese in maniera di contenimento dei gas serra.

C’è però un’altra battaglia parallela che ci vede coinvolti direttamente come cittadini responsabili, ovvero diminuire l’entropia a livello locale nei luoghi dell’abitare con misure che possono essere adottate sin da subito, come la pedonalizzazione dei nostri centri abitati, l’obbligo di non consumare ulteriormente il suolo attraverso cementificazioni, il recupero dell’acqua piovana, l’uso di energia solare, la riduzione di consumi superflui, la diffusione di orti urbani, la sostituzione di ingombranti auto private con mezzi pubblici, il riuso dei rifiuti, la ridistribuzione dei cibi non consumati, il risparmio energetico e così via. Forse per quanto riguarda questa seconda battaglia possiamo essere più ottimisti visto che si moltiplicano gli esempi virtuosi di gruppi di individui che hanno assunto stili di vita meno ortogonali alla natura.

Lei cita Kenneth Boulding: “Coloro che credono fermamente che la crescita esponenziale può durare in eterno in un mondo finito o è un pazzo o è un economista”. Come ne usciamo? Decrescita reale? Principio di precauzione e di tutela?

Sarebbe più facile rispondere alla domanda: “Come non ne usciamo”, ovvero la risposta in questo caso sarebbe: continuando a vivere in un sistema capitalistico che ha come suo fine esclusivo l’accumulazione e il profitto. Non ho un’eccessiva simpatia per la decrescita né per altre formulazioni astratte tipo: crescita zero, sviluppo senza crescita, ecc.

La risposta per quanto difficile è quella alla domanda precedente: adottare uno stile di vita meno ortogonale alla natura ricordando l’ammonimento di Gregory Bateson che la natura non può essere beffata e che in natura non esistono scorciatoie. La vita segregata nelle zone rosse delimitate per contenere il contagio del coronavirus, per paradossale che sia, sembra rappresentare una sorta di malefica sfida e formidabile occasione per riallinearci con la natura. Come è stato osservato in discussione è proprio l’intero modello di sviluppo globale, le gerarchie di mercato della globalizzazione reale, una globalizzazione senza regole che sembrava inarrestabile e che invece all’improvviso si scopre vulnerabile pur senza ammetterlo.

Così come non si ammette, a livello dei maggiori media d’informazione, che i responsabili del riscaldamento globale che distrugge le risorse, fin qui in modo diseguale distribuite, siamo sempre noi, il nostro modello di distruzione delle risorse che chiamiamo sviluppo. Si pensi al disastro ambientale degli incendi in Australia: sono bruciate superfici grandi come l’Italia, ma il governo democraticissimo di Canberra continua a negare il ruolo del cambio climatico trovando come colpevoli alcuni “piromani”.

Sempre a proposito del coronavirus è stato fatto notare che qualche settimana di quarantena sarebbe una ottima occasione per provare una buona volta a vivere un po’ meno freneticamente, riflettere su quello che ci capita, passare più tempo con le persone a cui vogliamo bene, Insomma votarsi a un rallentamento salutare del nostro stare al mondo. Questa si chiama decrescita? Non saprei.

Se, come si legge nel volume, ogni cosa che usiamo non può essere riciclata e riutilizzata, come si risolve il problema della plastica e dei rifiuti? Con più impianti e termovalorizzatori? Cosa dobbiamo fare per Roma?

Molto semplicemente che il riciclaggio totale, al 100%, ce lo impedisce il Secondo Principio della Termodinamica secondo il quale ad ogni trasformazione corrisponde un aumento di entropia, ovvero del disordine, ovvero di uno scarto che rimane sul pianeta.

Un mozzicone di sigaretta, ad esempio, non può essere riciclato. Solo l’entropia della biosfera (ovvero del pianeta) diminuisce a spese del disordine che è “scaricato” fuori dalla biosfera, ovvero nello spazio. Se ordini un microchip da un’azienda che lo produce (un oggetto che misura pochi centimetri) ti arriva un imballaggio di cartone grosso mezzo metro o più all’interno del quale ci sono tante palline di polistirolo e un involucro di platica per proteggere il microchip.

Dunque la prima cosa da fare è diminuire il volume degli imballaggi, se possibile fare in modo che essi possano essere agevolmente riciclati. Poi ogni cittadino deve separare i rifiuti: quelli per fare compost vero, gli oggetti di vetro, gli oggetti di plastica, la carta e così via. Se ci sono imprese che riciclano la plastica, il vetro, la carta, allora resterà pur sempre una frazione che non può essere riciclata, ma sarà sempre un quantitativo molto ridotto. Gli impianti di trattamento dei rifiuti servono ma il loro numero e la loro dimensione è una variabile della accuratezza con cui si fa raccolta differenziata.

Quanto agli inceneritori e ai termovalorizzatori, essi sono la stessa cosa dal punto di vista termodinamico. Non deve trarre inganno la parola “termovalorizzatore” perché se si fa un bilancio energetico l’energia prodotta è minima a fronte del processo di combustione che brucia pur sempre fossili.

Vanno molto di moda sia l’ibrido che l’auto elettrica. Sono anche queste “false narrazioni del neoliberismo”?

L’elettricità come anche l’idrogeno sono vettori, ovvero trasportano energia. Prendiamo l’auto elettrica. Dove vengono fabbricate le pile e dove si produce l’energia in esse accumulata? Certamente come prodotto della combustione esse vanno bene in città perché non viene prodotto ossido di carbonio, stesso discorso vale per l’idrogeno.

Ma torniamo al primo principio della termodinamica che afferma che l’energia non si crea né si consuma. L’energia chimica contenuta nelle pile deve essere prodotta in qualche modo, stessa cosa per l’idrogeno che non è presente allo stato libero in natura. Quindi ci sarà un qualche posto dove sorgeranno centrali elettriche che producono l’energia necessaria per le pile. E come lo producono? Molto probabilmente utilizzando fossili e così siamo tornati al punto di partenza. Lo ripeto: in ecologia non ci sono scorciatoie e il Secondo Principio della Termodinamica è inesorabile: più consumiamo più aumentiamo l’entropia, ovvero il disordine.

Agli scienziati e ai detrattori di Greta e dei giovani che manifestano per l’ambiente, cosa risponde?

Che la “ragazzina” con sindrome di Asperger parla anche di loro. Li mette in guardia contro il pericolo di estinzione di massa se si procede sulla stessa strada. Esistono ormai documenti della comunità degli scienziati con prove inconfutabili che il rischio è molto prossimo. Esistono poi pseudo-scienziati che negano l’evidenza o che sottovalutano il pericolo ma quasi mai documentando scientificamente perché questa minaccia non andrebbe presa in seria considerazione.

Lei scrive che smart e sostenibile o sostenibilità sono parole che oggi vengono utilizzate con troppa facilità. Perché?

Io affermo che “sostenibile” o “sostenibilità” sono diventate parole retoriche che si adattano anche alla pubblicità di prodotti tutt’altro che buoni. Lo sviluppo sostenibile, inoltre, oltre ad essere qualcosa di difficile definizione è anche un ossimoro perché noi non conosciamo altro sviluppo da quello attuale. Come già Progresso o Sviluppo anche la sostenibilità è una parola magica, un dispositivo semantico, un termine ambiguo e polisemico e insieme indeterminato, una parola grimaldello con la quale aprire ogni porta.

Conoscete forse qualche persona che sia contro il Progresso, lo Sviluppo, la Sostenibilità? Ogni obiezione viene stroncata sul nascere. La parola non può che avere significato positivo, come la torta della nonna che per “definizione” è sempre buona (perché della nonna). Il suo successo è dovuto proprio alla sua inconfutabilità: se una cosa è sostenibile, allora è anche buona e giusta, così come il Progresso va sempre dal basso verso l’alto, dal peggio verso il meglio senza soluzione di continuità, e lo Sviluppo è sempre segno di Benessere.

Ci troviamo di fronte a un problema insormontabile. Certo lo sviluppo sostenibile non si identifica con un generico appello alla qualità ambientale, piuttosto a un modo di pensare (lo sviluppo) nel quale sono le attività economiche e il cambiamento dei meccanismi di produzione, distribuzione e consumo a sostenere il miglioramento della qualità sociale e ambientale.

Tuttavia anche con questa ulteriore precisazione, siamo ancora lontani da ritrovare un’armonia con il nostro ambiente naturale (la biosfera) e soprattutto non sappiamo come realizzare queste condizioni che provocherebbero, se realizzate, un terremoto economico e sociale.

Per avvicinarsi a questo obiettivo occorre cominciare a pensare diversamente: che siamo parte della biosfera, ovvero siamo, per dirla con Edgar Morin, 100% natura e 100% cultura: un paradosso matematico ma che rende bene l’idea di quale impasto siamo formati. Non veniamo dallo spazio, la nostra specie è dovuta a un lungo processo di coevoluzione con la biosfera, che costituisce, per ciò che ne sappiamo, l’unico luogo dell’universo dove è comparsa la vita.

Come vede il futuro delle nostre città e di Roma in particolare soprattutto in considerazione dell’agenda 2030?

Ad essere sincero piuttosto male, nel caso di Roma. Uno scrittore, Francesco Pecoraro sostiene in un suo interessante libro che consiglio di leggere, Lo stradone, che Roma è un gran ristagno. Recentemente un autorevole studioso dei problemi di Roma (e ex assessore ai trasporti nella Giunta Rutelli) ha detto che se Roma passasse da una situazione di ristagno a una dignitosa situazione di decadenza sarebbe un buon risultato. Scherzi a parte è l’unica città dove non si riesce a risolvere il problema della raccolta dei rifiuti, riparare scale mobili (qual è il loro mistero?), ridurre le ore passate nel traffico (seconda città al mondo dopo Istanbul), e così via. Ma forse non dobbiamo essere così pessimisti e i cittadini dovrebbero cominciare a farsi sentire.

Sulla questione ambientale: cosa possiamo fare nel concreto per adottare scelte realmente e concretamente green?

Ho già detto in precedenza che la battaglia va combattuta su due fronti come fossimo strabici: da una parte con una mobilitazione “dal basso” che costringa (si badi bene non “convinca”) i nostri politici e le istituzioni a prendere provvedimenti che siano in linea con l’obiettivo di mantenimento degli equilibri biosistemici (in primis che contrastino il surriscaldamento), ma questo non può bastare. Occorre che ognuno di noi ristabilisca un equilibrio con la natura da cui si è separato. Ho già illustrato le iniziative già esistenti praticate da individui singoli, gruppi e comunità che coltivano esperienze virtuose.

Sta suscitando un forte dibattito l’idea di costruire una centrale geotermica in Toscana ai confini della Val D’Orcia. Crede che sia davvero un pericolo il geotermico per la natura?

Le centrali geotermiche assicurano profitti altissimi per chi le realizza. Nel caso della Val D’Orcia la devastazione paesaggistica e territoriale sarebbe assai rilevante. Un paesaggio attraversato dalla via Franchigena. Oltre ad essere un luogo di incredibile bellezza paesaggistica, la Val D’Orcia racconta ancora storie di natura e ospitalità ed è diventata nel 2004 sito Unesco. La narrazione che viene fatta è che la geotermia è una rinnovabile che consentirebbe di interrompere l’uso dei fossili, ma a quale prezzo?

Conosco poco il progetto della centrale geotermica, ma dalle poche cifre che ho letto si tratterebbe di un’area di numerosi ettari da cui verrebbe estratte 700 tonnellate /h a 1900 metri di profondità e alla temperatura di 160 °C per poi essere reimmesse nel sottosuolo a 80 °C. con eventuali rischi sismici e distruzione di un importante ecosistema. C’è un’opposizione dura dei cittadini che dura da molto tempo che ha come obiettivo quello di ostacolare la centrale che indubbiamente avrebbe un impatto paesaggistico devastante.

Per concludere: qualcuno ha detto che la questione ambientale è una questione troppo seria da essere lasciata in mano agli ambientalisti. Crede davvero che sia così?

Se la questione ambientale viene lasciata in mano ai solo ambientalisti, la colpa è dei politici e dei governi che l’hanno sempre sottovalutata, rimossa dai loro programmi politici troppi attenti a valutare i decimali di Pil. Credo che stia nascendo una consapevolezza diffusa, anche tra i governi, che la questione sia da affrontare. Ma attenzione ai programmi “green” preoccupati piuttosto che anche il “green” diventi un business mondiale senza cambiare nulla del nostro atteggiamento nei confronti della natura. Ripeto: la soluzione finale di questa questione non può che risiedere nei comportamenti individuali riducendo l’entropia locale.

Per concludere mi sia concessa una battuta, forse un po’ macabra, ma che fa almeno sorridere. Passeggiando nella foresta una zebra disse a una giraffa: “la sai l’ultima, si è estinta la razza umana”. E la giraffa: “finalmente torniamo alla normalità”.

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