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Giorgio Càeran: il mondo raccontato da un vespista leggendario

Giorgio Càeran: il mondo raccontato da un vespista leggendario
Giorgio Càeran: il mondo raccontato da un vespista leggendario

Incontro con Giorgio Càeran, leggendario viaggiatore in ‘Vespa 200 Rally’, camminatore e scrittore. In questa “chiacchierata” racconta a Green Planet News il mondo che ha attraversato e il suo stile di vita.

Giorgio Càeran, uno di quei viaggiatori capace di affidarsi a un modello leggendario di Vespa, la ‘200 Rally’. Un “globetrotter” che ha attraversato il mondo con la Vespa e con lo zaino. Diversi libri al suo attivo e dei blog dove racconta le sue avventure, ha veramente “calcato” le strade del mondo in Vespa e a piedi.

Giorgio Càeran, attenzione, non è un sognatore che lascia spazio a vaghi sentimentalismi ed evasioni facili. Giorgio Càeran sottolinea: “C’è chi, volendo farmi dei complimenti per le innumerevoli cose che faccio, mi dice che io sono ricco di fantasia. Dovrebbe farmi piacere? Beh, tutt’al più avrei preferito il sostantivo creatività… e non è la stessa cosa.

La creatività s’accompagna con la volontà, che invece per fantasticare non serve giacché spesso corre di pari passo con la pigrizia mentale. Inoltre la creatività ha uno scopo che si prefigge di trasformare le fantasie in immaginazione autentica, con possibilità di cambiamento e crescita. La creatività, quindi, si associa alle emozioni più intense e concrete mentre la fantasia va a braccetto con le illusioni. Io cerco creatività, non fantasia. Ecco come si racconta in questa intervista.

Giorgio Càeran inizia così: “In gioventù affidai la mia sorte alla Vespa, per giungere fino in India negli anni Settanta del secolo scorso, ma senza la Vespa sono anche andato in tanti altri posti lontani. Potrei definirmi un giramondo libero che ho calcato le strade del pianeta, con la Vespa o con lo zaino, arrivando a raccontare le mie esperienze in sei libri di narrativa di viaggio e in otto miei Blog. L’ultimo mio libro pubblicato, non a caso, si chiama “Mezzo secolo rincorrendo il mondo – Nei viaggi la Vespa fu il primo amore… poi venne il resto”. Nelle pagine iniziali c’è questa riflessione: «C’è chi si chiede se, con tutti i problemi dell’umanità, con le pandemie e tutto il resto… parlare di viaggi a che serve? A che serve a chi è impossibilitato a muoversi per i più svariati motivi, inclusi quelli fisici? Chi non va in vacanza che se ne fa di leggere racconti di viaggi altrui? Non è frustrante? Io non la vedo così e penso che anche se non si possa viaggiare in maniera concreta… è possibile farlo almeno con il pensiero, alla maniera antica. Far galoppare la mente verso posti lontani e forse sconosciuti sprigiona un certo entusiasmo misto a curiosità. E se si dovesse leggere invece di luoghi già visti, beh la lettura aiuta a far affiorare quei ricordi“.

Giorgio, come nasce la tua passione per un certo tipo di viaggiare da sempre particolarmente evocativo?

Sono venuto al mondo nel 1952, ossia sette anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. C’era parecchia povertà diffusa in quegli anni… ed io sono nato in provincia di Como a ventotto chilometri da Milano, figuriamoci chi viveva nel meridione dove lì si stava molto peggio. In casa non c’era granché e ciò che c’era doveva bastare, senza discussioni. Punto. Adesso si sostiene che ci si accontentava di poco, non come adesso che si è incontentabili. Balle! Ci si accontentava per forza, perché cos’altro c’era? Mica c’era internet, smartphone e tutto il resto che oggi è cosa normalissima… ma allora era inesistente. Voglio dire: non dipingiamo la mia generazione come chi sapeva accontentarsi di poco, non aveva vizi. Se ci fossero state tutte le tentazioni odierne, anche noi ci saremmo comportati così. Se non proprio tutti, ma una buona fetta di noi sì. Mia madre era assai manesca e la mia infanzia non è stata bella, niente affatto, tutto ciò ha avuto ripercussioni future anche quando sono diventato adulto.

Mia moglie, rivolgendosi a mia figlia, le ha rivelato che non mi ha mai visto piangere né vedermi scendere una sola lacrima… aggiungendo che non è normale. È vero, non è per niente normale trattenere le lacrime senza mai lasciarsi andare, che invece sarebbero uno sfogo liberatorio e aiuterebbero a vivere meglio.

Questo mio comportamento, questa durezza interiore, questa crosta che mi sono creata nasce dalla mia infanzia… e ciò che germoglia in quel periodo si trascina poi per l’intera esistenza. Si limeranno delle cose, ma l’ossatura è quella ed è difficilissimo intervenire poi in maniera efficacia. Qualcuno ci riesce, beato chi ce la fa… si vede che io sono più limitato, ma d’altronde con malcelato fastidio non sopporto le storie mielose, quelle strappalacrime: no, le evito in maniera decisa.

Essendo rimasto orfano di padre quando frequentavo la scuola elementare, ho quindi trascorso sette anni in collegio: quattro in un triste istituto religioso a Como (di sicuro il periodo peggiore non solo tra i due collegi, ma anche della mia vita) e tre in un gioioso e gradevole istituto di arti grafiche a Roma. A proposito della Capitale, penso alla molla che mi fece scattare la passione del viaggio e nacque durante quei tre anni di collegio; in quel periodo ci furono due segnali precisi che m’infiammarono:

• Vedere giovani europei seduti sui gradini di Piazza di Spagna, con sacchi a pelo e zaini;

• il film “Easy Rider – Libertà e paura”, uscito nel 1969 (quando io avevo diciassette anni). M’immedesimavo in sella a una di quelle due moto chopper e guidare verso nuovi orizzonti. Ecco, queste sono state, per me, le due scintille che mi scatenarono l’entusiasmo per i viaggi… ma viaggi di un certo tipo, pieni di emozioni forti.

Che cosa ti spinge a portare delle ruote provviste di pneumatici 3,50×10 verso strade polverose, nei posti più sperduti del pianeta?

Per la voglia di cambiare, di mollare tutto (lavoro, amicizie e cose simili) e partire senza itinerari troppo programmati, e senza fare sapere a casa dove mi trovassi. La ricerca di libertà, voglia d’avventura, passione e perfino incoscienza… ma non solo. C’era, soprattutto, la voglia di rompere la monotonia dei giorni che scorrevano simili l’un l’altro. No, non era quella routine che volevo… e così iniziai a desiderare paesaggi lontani ed esotici, dando ascolto al mio carattere ribelle. Volevo partire senza però dare dei punti di riferimento su dove mi trovassi: mai e poi mai una cosa simile, perché altrimenti che “fuga” sarebbe? Se penso che negli undici mesi del mio viaggio alla volta dell’India feci una sola telefonata a casa, litigandoci pure… è tutto detto.

In fondo quella mia partenza è nata sì per una sete di avventura, ma è stata soprattutto una fuga dalle mie paturnie: in quell’epoca non stavo bene con me stesso, con gli altri, con i familiari, con tutti… e quindi ero attratto dalle imprese folli, avevo bisogno di fare cose diverse e insolite per frenare la mia irrequietezza. Cercavo di buttarmi a capofitto nelle difficoltà, pensando così di calmare il mio spirito ribelle: è stata questa la base per la mia partenza. Ci sarebbe da sviluppare un lungo discorso, ma potrei sbrigarmela così: alla base di tutto, il mio girovagare nasceva da una voglia matta di fuggire. Aggiungo, in maniera sintetica, che soprattutto quel viaggio verso l’India è stata la mia salvezza: frequentavo compagnie, chiamiamole “agitate e fuori dagli schemi”, che negli anni successivi hanno poi pagato caro, sulla propria pelle, il conto alla vita. Tra di loro qualcuno non c’è più, vittime di scelte sbagliate che io per fortuna ho evitato grazie… ai viaggi. Eh, già; qualche mio ‘vecchio’ amico è morto per un’overdose, per imprevisti assurdi, per litigi finiti male; e anche per cose che possono capitare a chiunque, come incidenti stradali e malattie.

Raccontami dell’incontro con quella Rally, che poi hai nominato “Gigia”. Fu casuale, oppure la desideravi e avevi identificato in essa il veicolo ideale di libertà?

Svelo una curiosità: nel viaggio verso Capo Nord il nome Gigia non l’avevo ancora adottato, perché ciò fu in coincidenza con l’altro viaggio iniziato l’anno dopo. Anzi, a dire il vero, il nome Gigia fu messo addirittura alla fine del viaggio in India, diciamo che lo inventai in occasione della pubblicazione del primo libro.

E, per essere ancora più sincero, non fu neppure un’idea mia bensì me lo suggerì un redattore che, saputo che stessi scrivendo il libro mi propose lui stesso il nome Gigia. Ma lo disse così, con il primo nome che gli venne in mente, solo per farmi capire che sarebbe stato meglio farlo. Poteva essere Gigia, o Frida, o chissà chi… basta che ci fosse un nome. Accettai il consiglio. In pratica quel nome fu messo a posteriori, per il libro, soltanto per far scorrere meglio il testo e non rendere ripetitivi i termini Vespa e scooter. Io non ho mai dato alcun nome a qualsiasi mia Vespa ma tuttavia, pur avendolo messo a posteriori, la cosa non mi è dispiaciuta… tutt’altro. Alla fine è come se Gigia mi avesse accompagnato davvero verso l’India, come se quel nome era già suo da sempre. E ormai Gigia è in simbiosi con la mia ‘200 Rally’, e addirittura noto che tale simbiosi è rimarcata, da diversi addetti, per ogni ‘200 Rally’.

Quando comprasti la tua “Vespa Rally”?

Giovedì 2 agosto del 1973 la comprai a Cantù, da Elio Corbetta (nel negozio Piaggio che stava in via Ettore Brambilla 16 e ora non c’è più, essendo morti prima il padre e poi il figlio che gestivano il negozio). Rammento che il negozio Piaggio distava 8,6 chilometri dalla mia casa di allora, a Cermenate. La ‘200 Rally’ mi costò 283.000 lire, a cui c’erano da aggiungere le spese per gli accessori portando il totale a 363.600 lire (oggi è l’equivalente di 187,47 euro): era di color Corsa Piaggio 806 (nel 1978 la ‘Max Meyer’ ha poi modificato il nome del colore con il codice “P2/5”).

È la stessa Vespa con cui andai dapprima a Capo Nord (un’esperienza che mi è stata utile per farmi le ossa), e poi alla volta dell’impegnativo viaggio di undici mesi verso l’India e il Nepal: quest’ultimo sì, davvero indimenticabile. Parlo della Gigia, ma in concreto che Vespa era la mia? È un modello prodotto nel 1972 (telaio numero VSE 1T 008064); fa quindi parte della prima ondata di ‘200 Rally’, con pulsante di massa sotto la sella; in seguito ci furono alcune varianti tecniche e non solo. Io ero piuttosto dubbioso se comprarla con il miscelatore automatico, perché era una novità e non si sapeva se andava bene o no. Nel 1979 terminò la produzione di questo modello, considerato una delle Vespe più affidabili e ricercate in assoluto. Io sono dell’idea che le successive “PX” (fatte conoscere nell’ottobre 1977, mentre io ero fermo in Iran, e uscite di produzione nel 2007) siano state inferiori.

Quale è stato il guasto, o l’episodio, che ti ha causato più disagi?

Il grippaggio nel Kurdistan turco. Ero a un centinaio di chilometri da Hakkâri, nel sud della Turchia; località vicina al confine con la Persia. La strada asfaltata era ormai un lontano ricordo e ben presto anche quella di terra battuta a poco a poco era sparita e si era trasformata in uno stretto viottolo con buche enormi, salite e discese da capogiro, curve terribili, pareti rocciose incombenti da un lato e, dall’altra parte, baratri infernali. È qui che mi capita il grippaggio al pistone.

È stato l’inizio di una lunga serie di traversie che mi hanno portato a vivere a stretto contatto con la gente del posto. In autostop, con la Gigia caricata su vari furgoncini, sono poi giunto a Rezaiyeh (in Iran), dove ho avuto la fortuna d’imbattermi nel cantiere edìle di una impresa italiana e quindi anche in un meccanico valtellinese che è riuscito a riparare in qualche modo la Vespa. Nel cantiere ho trovato anche un lavoro che era capitato a proposito, perché ero quasi rimasto a corto di soldi.

Non ti sei considerato un vespista maniacale, tanto che non sei mai stato iscritto ai ‘Vespa Club’. Hai comunque avuto un trasporto affettivo sentendo l’esigenza di “umanizzare” la Vespa? Insomma… l’hai considerata soltanto un mezzo per arrivare alla meta, o una compagna di viaggio a cui affidare i tuoi pensieri?

Ritengo i ‘Vespa Club’ delle validissime associazioni di appassionati mosse da spirito di amicizia e interessi comuni, ma io non mi sono mai iscritto. Perché? Forse è un mio problema freudiano ma i sette anni di collegio mi sono bastati e non sopporto più le briglie tirate, bensì amo lasciarle sciolte dando più spazio alla libertà di muovermi… ossia a un metodo basato sul coraggio di vivere da soli, permettendomi così di dedicarmi con maggiore efficacia a ciò che mi sta più a cuore. Mi piace sentirmi libero senza pensare tanto a ciò che mi porterà il domani badando bene, però, di non confondere la libertà con la sfrenatezza.

Ammetto che mi fa piacere essere considerato dai Vespa Club, e da parecchi amanti di questo scooter, uno dei più importanti viaggiatori-vespisti italiani in assoluto e c’è chi, come Edi Fadelli, che mi abbia chiesto di scrivergli la prefazione del suo libro pubblicato nel maggio 2023. Esagerano? Boh. Certo che quando nel 1977 partii per il mio viaggio verso l’India, a uscire dall’Europa prima di me in Italia ci fu solo Roberto Patrignani: questa è una gran bella soddisfazione che mi resta. A onore del vero nel 1976 ci fu Andrea Costa che fece un viaggio negli Stati Uniti d’America, da New York a San Francisco (5.509 chilometri), anche lui con una “Vespa 200 Rally” messa a sua disposizione, lì sul posto, addirittura dalla Piaggio che la modificò per gli USA: invidiabile!

Sull’umanizzare la Vespa non è mai stata la mia priorità, anche perché nonostante tutto sono pur sempre un tipo razionale e fatico perciò a farmi trasportare in maniera affettiva verso qualsiasi veicolo o oggetto. Ecco il punto: il mio comportamento, il mio distacco verso il mezzo che ho usato. Può darsi che io sia l’unico ad aver agito così… fregandomene. Io, però, considero i veicoli delle semplici macchine e non anime da venerare e da ostentare: in un’officina meccanica di Rovellasca (un paese vicino alla mia nativa Cermenate) ho abbandonato la mia Gigia, quando chiunque altro al mio posto l’avrebbe vezzeggiata e custodita come un cimelio. Ma io sono disinteressato all’attaccamento delle cose, al senso del possesso: sono fatto così e non mi pongo il quesito se ciò sia un bene o un male perché non m’importa. Come non m’importa collezionare scooter antichi (e ingombranti) soltanto per tenerli in bella mostra, seppur non funzionano. Io voglio motocicli vivi da poter ancora usare, mentre per quelli morti è meglio che vada a vederli altrove.

Come è nato il tuo lungo viaggio in Vespa, verso il Nepal?

Premetto che il mio viaggio risale a mezzo secolo fa, perciò ha dei punti di riferimento non più riconoscibili oggi. Detto ciò, quando penso ai miei viaggi in Vespa ricordo l’osare di più ogni volta che ne finiva uno: per esempio, nel 1972 con un vecchio ‘vespino 50’ andai a Passo Sella, Alta Valmalenco e dintorni. L’anno successivo, con un altro vespino della stessa cilindrata ma con qualche anno in più, feci il giro d’Italia senza però andare in Sicilia. Ricordo solo che al 4° giorno arrivai a Reggio Calabria. Poi venne il viaggio a Capo Nord e a quel punto ritenni che era giunta l’ora di fare il grande salto: la fase preliminare era finita, sentivo che ero alla ricerca di altri stimoli. E così venne il viaggio in India. Quest’ultimo viaggio è nato in maniera graduale, alzando sempre di più l’asticella delle esigenze.

Come hai organizzato i viaggi vespistici, soprattutto quello per l’India?

Ogni volta l’organizzazione me la sono fatta da solo e ho sempre usato soldi miei senza ricorrere agli sponsor, ci tengo a chiarirlo. In fin dei conti ho sempre amato i viaggi, sin da quando ero giovane, deciso a licenziarmi quando il datore di lavoro non mi concedeva dei mesi di permesso non retribuito, nella speranza di trovarne un altro al mio ritorno (cosa che, però, non sempre succedeva). Ma io volevo andare in India con la Vespa (e starmene via senza date da rispettare, al punto che in quel viaggio stetti lontano dall’Italia undici mesi), o starmene via sette mesi nel Sud America… e di conseguenza, senza tentennamenti, non avevo alternative che dire addio ai miei posti di lavoro, oppure ottenere permessi non retribuiti (ma in questo caso solo in un paio di occasioni è stato possibile farlo, perché di norma non è mai concesso).

Ricordo che per andare a Capo Nord mi licenziai, dopo sei anni di lavoro in una ditta grafica; occorre soltanto un pizzico di determinazione poi, con la buona volontà, tutto è possibile. Sarà ingenuo e romantico il mio concetto, ma ritengo che forse sia il più adatto per abbracciare l’avventura e per sentirsi davvero liberi da ogni costrizione, sia mentale sia materiale. Il licenziamento per andare a Capo Nord, detto così sa di ridicolo o di esagerato (quindi inopportuno), però va chiarito che quella non era la meta finale, bensì sarei poi sceso fino a Gibilterra e da lì avrei iniziato a costeggiare il nord Africa – ove era possibile – risalendo infine fino a Trieste. In sostanza avrei dovuto poi costeggiare il mare Mediterraneo… solo che l’incidente capitatomi vicino a Narvik (nel Circolo Polare Artico), dopo aver lasciato Capo Nord, ha interrotto tutto. In maniera definitiva. Mi sono preso la rivincita l’anno successivo partendo per l’India, con la stessa Vespa dell’anno prima.

Si sostiene che per fare un raid extra-europeo occorra una forte somma di denaro, ma io non sono d’accordo: si può spendere poco, oppure tanto, è questione di scelta, a seconda le esigenze personali. Se ci si adatta a dormire all’addiaccio e a mangiare nelle bettole (cose da me sperimentate in moltissime occasioni), la cifra può abbassarsi parecchio. Saper viaggiare in economia è un’astuzia che si apprende con il tempo. Spesso mi si chiede qual è la differenza tra quando viaggiavo allora e adesso. Io ritengo che il principale cambiamento tra i viaggi odierni e quelli di quando li feci io più di quattro decenni fa è la tecnologia con internet, collegamenti satellitari, smartphone, navigatori GPS e via dicendo. È una grossissima differenza, come lo sono anche le condizioni delle strade maestre e l’evoluzione nel campo fotografico passando dalle diapositive al digitale. Per il resto è in parte invariato, e tuttavia si tratta di piccolezze al confronto di internet e del nuovo modo di fare le foto. Io sono fermo all’epoca pionieristica antecedente a internet, a quando i viaggi non erano dettati dalla moda, a quando le strade trasmettevano avventura e non erano comode come quelle odierne, a quando gli itinerari da percorrere si scrutavano solo sulle cartine stradali.

Perché in Vespa? E quanto sopportavi stare in sella ogni giorno?

Bella domanda. Eh già; qualcuno può chiedersi perché rinunciare a viaggi organizzati tanto comodi, alle crociere sui transatlantici, ai buoni hotel… già, perché? Perché non viaggiare con un’automobile per sentirsi almeno un po’ più sicuri in simili viaggi? Perché, dunque, per andare in India ho scelto l’identica Vespa con la quale l’anno precedente giunsi a Capo Nord? Forse perché mi piace cavalcare il vento, libero in quel poco di libertà che ancora rimane all’essere umano (soprattutto adesso, nell’era della “globalizzazione”). Ci sono cose che desideriamo tanto, ignorandone il motivo profondo. L’irreale Kathmandu, la mitica India: due obiettivi e due sogni di tanti giramondo degli anni Settanta del secolo scorso, e di una generazione cresciuta nel sogno del “viaggio”. Niente di straordinario, la via delle Indie; niente di straordinario l’averla percorsa in ‘Vespa 200 Rally’. Forse è un po’ fuori dell’ordinario, invece, che io abbia realizzato la mia fuga da casa con uno scooter di quattro anni acciaccato e protagonista, l’estate precedente, di un viaggio a Capo Nord… con l’incidente sulla strada del ritorno incluso.

Riguardo alle tappe e ai chilometri giornalieri che cosa devo dire, se non che ero instancabile? Nel 1976 durante il mio viaggio verso Capo Nord con la ‘200 Rally’, la mia prima tappa è stata di 924 chilometri (giungendo a 63 km da Fulda, in Germania), e il 2° giorno ero già in Svezia (13 km dopo lo sbarco a Helsingborg del traghetto, per un percorso sul suolo stradale di 857 km). Insomma, ci davo sotto. L’andatura del successivo viaggio asiatico, da domenica 21 agosto 1977 a giovedì 20 luglio 1978, è invece calata: in questo caso avevo percorso in totale 23.084 chilometri. Il viaggio era durato 334 giorni alla volta di Delhi, Kathmandu, Calcutta (ufficialmente Kolkata, dal bengalese), Bombay (l’attuale Mumbai), Delhi e ritorno a Cermenate. I giorni effettivi di viaggio sono stati 59 e la tappa più lunga di questa avventura capitò in Turchia, nel tratto da Tatvan a diciassette chilometri prima di Osmaniye: 687 chilometri.

Sapevi cavartela con i motori?

Ricordo come se fosse ieri tutte le volte che, appena potevo, andavo a Bregnano, un paese comasco confinante con Cermenate, in un’officina dove si riparavano motocicli. Ci andavo per “rubare il mestiere”. Il meccanico era a conoscenza del mio progetto: andare in India con una che aveva quattro anni. Il meccanico pazientemente m’insegnò un sacco di cose utili per far fronte a un bel po’ d’interventi meccanici. Mi faceva montare e smontare qua e là, fino a quando dimostravo la mia completa autonomia. Io ero molto determinato a imparare il maggior numero di nozioni tecniche, che mi sarebbero state utili per il viaggio. Purtroppo, al ritorno a casa lo stesso meccanico si dimostrò incompetente nel riparare l’acciaccata Vespa… ma questa è un’altra storia.

Ti sei sentito un vespista genuino e solitario, sempre alla ricerca del vento da cavalcare alla scoperta creativa delle tue emozioni più intense. Un anticonformista. E oggi come ti senti, come guardi la tua strada?

Intanto chiarisco che non è tanto l’epoca in cui si affrontano le varie avventure, ma il carattere di ognuno e il modo in cui gli individui si fanno coinvolgere dalle emozioni. La differenza nelle varie epoche è solo sulla parte tecnologica e sulle condizioni delle strade maestre. Una differenza di grandissimo peso, senza dubbio; ma il pathos, invece, è invariato. Io, da buon tipo schivo, non ho mai simpatizzato per le americanate, per le spettacolarità senza freni… perché mi sentirei a disagio. I miei comportamenti, il mio modo di affrontare certi viaggi impegnativi, non dipendevano solo dalla mia epoca, ma semmai dal mio carattere riservato e poco propenso a contagiare gli altri su ciò che mi accingevo a fare. Non volevo passare per sbruffone, perciò partivo senza far sapere la data esatta (che ignoravo perfino io). Niente date, ma mi basavo sul momento, perciò non c’era nessun appuntamento in piazza. Mai, sia alla partenza sia al ritorno.

A volte mi capita di accettare, per esempio, di esserci alla partenza dei vari viaggi presentati in pompa magna con tanto di squilli di tromba istituzionali, come se si fosse in un grande circo, come se si partisse per lo spazio cosmico o chissà verso quale cosa mai vista. Neanche questo fa per me. Accetto certi inviti per essere presente a scenografiche partenze di viaggi importanti, ma lo faccio per educazione verso chi me lo chiede giacché non mi entusiasmano, tanto è vero che io ne ho sempre fatto a meno. Ogni volta che sono invitato a queste ‘grandi partenze verso la Luna’ sono scombussolato dall’enorme enfasi che c’è attorno, una cosa per me del tutto sconosciuta. Io amo il silenzio, lontano dalle luci esibizionistiche della ribalta e, all’opposto, non amo la teatralità sia nella buona sia nella cattiva sorte: ma questa mia prerogativa è difficile che sia compresa e accolta, lo so. O forse sono io ad essere fuori posto, non in linea con il comportamento generale odierno, ma lasciatemi convivere con le mie paturnie… ormai fanno parte di me.

Hai un caratteraccio? Tutti i tuoi viaggi importanti li hai fatti da solo, perché non ti piace viaggiare in compagnia?

Tra chi mi conosce c’è chi sostiene che io ho un certo caratterino, per nulla facile. Può darsi che io sia fatto male, ma non posso di certo cambiare adesso che ho più di settant’anni. Non è semplice avermi accanto, lo so bene al punto che nei viaggi lunghi io preferivo viaggiare da solo. La solitudine a me non dispiace. Sia chiaro che sto bene quando sono in buona compagnia, ma è gradevole anche stare da solo, di tanto in tanto, in particolare quando si tratta di mettere in gioco sé stesso, le proprie capacità, il proprio modo di essere. Da giovane ero un tipo ribelle, ed è stata una mia prerogativa che mi ha tolto dai pasticci in parecchie situazioni future, anche nei posti lontani dalla madre patria. Ma, nel contempo, questo mio carattere non accondiscendente mi ha anche causato alcune grane: d’altro canto se non si accetta una vita remissiva bisogna essere disposti a pagarne le conseguenze… ma senza poi incolpare gli altri.

Stando solo, separato dai gruppi, si ha tempo di riflettere in maniera razionale senza farsi ingabbiare dall’emotività. Sono convinto che chi non riesca mai a stare bene con la propria solitudine, chi non riesce ad accettarla e deve essere sempre attorniato da persone perché ha paura di stare (e pensare) da solo… beh, mandi in fumo una buona fetta del proprio equilibrio interiore. C’è chi sente l’esigenza di blaterare, purché si fugga dal silenzio (della serie: parla, parla ma non dice nulla). Penso, invece, che un po’ di silenzio non guasti alle povere orecchie di chi magari sia costretto a subire la petulanza altrui. A chi è abituato, bene o male, a cavarsela da solo, soprattutto nelle cose che contano, ha nel silenzio un aiuto a pensare.

È anche vero che la solitudine, la mancanza di veri amici con i quali dividere felicità e angosce, la mancanza del calore della propria donna, spingono a volte l’uomo sull’orlo della disperazione. Si è tentati di chiudersi in sé stessi e di vedere tutto nero. È necessario, invece, reagire alla mancanza di calore umano; è bene immaginare l’avventura che si sta vivendo come una parentesi straordinaria e incancellabile, ritrovando così la vitalità persa. Del resto la tristezza umana non deriva dall’essere soli sapendo di esserlo, semmai la melanconia nasce dall’essere soli credendo di non esserlo. Ed io, per esempio, quando avevo qualche anno in meno e me ne andavo in giro sulle vie del mondo “sapevo” di essere solo, quindi è probabile che ero più sereno di chi, pur essendo in compagnia, alla fine si sentiva più solo di me. In quelle occasioni mi domandavo che chi non sa accettare la propria solitudine usa gli altri semplicemente come uno schermo nei confronti dell’isolamento.

Soltanto se si sa vivere soli come un rapace che vola alto ci si può abbandonare a un’altra persona. Un buon rapporto (di qualsiasi legame) può esistere felice quando non è una stampella di una delle due persone: ognuno deve essere in grado di reggersi per conto suo, altrimenti non funziona. L’unione di due persone non è un mutuo soccorso. Certo, mi si dirà, che però è bello avere qualcuno con cui ridere e scherzare, fare progetti, visitare assieme certe località: è verissimo tutto ciò, ma non dimentico che non sempre funziona così soprattutto nei viaggi tosti e lunghi. Anzi, spesso, in quei tipi di viaggi c’è il rovescio della medaglia. Più facile da gestire la compagnia si ha, invece, quando il viaggio più che altro è una vacanza e non impegna più di tanto: in questo caso avere una persona accanto può diventare piacevole.

Che cosa ti ha insegnato quel viaggio in Vespa, durato undici mesi?

Un viaggio vespistico non è un tentativo di afferrare la luna dal pozzo, ma è alla portata di tutti. Più che cercare di coprire velocemente il maggior numero di chilometri possibili, penso che sia preferibile badare a vivere un’esperienza appassionante. È necessario non dimenticare mai che nessun viaggio del genere va fatto alla leggera. Oramai non è più possibile definire un raid “eccezionale”, quindi considero il mio datato viaggio verso la cerchia nevosa dei monti himalayani un’esperienza che mi ha dato tanto ed è stata utile, ma nient’altro. Ho constatato che quella prova così difficile è servita a migliorare un po’ il mio carattere, a rafforzarmi, a farmi formulare poi, a posteriori, un giudizio più riconciliato con la vita.

Che cosa spinge a viaggiare, ad abbandonare la propria dimora, le comodità e la sicurezza, per finire in situazioni incerte, a volte potenzialmente pericolose o comunque al di fuori degli schemi abituali di una rassicurante quotidianità?

Sul mio blog “VIAGGI, LIBRI E CURIOSITÀ” da parecchio tempo c’è questa mia frase: Ciò che ci salva è il movimento, sia fisico sia mentale. Ciò che ci penalizza, invece, è l’immobilità del corpo e della mente… ed essere ripetitivi è una forma d’immobilismo. Questo non significa rinunciare ai propri ideali, ai sogni che è giusto continuare ad alimentare, ma per immobilismo s’intende rifare tediosamente le stesse cose all’infinito senza cercare delle scelte diverse. È la paura di cercare cose nuove. È mancanza di personalità. Percorsi nuovi dunque, sì certo, ma purché non siano dettati solo dai mal di pancia del momento”.

Viaggiando non ci si deve accontentare di poco, quando invece si può avere molto in fatto d’emozioni e di conoscenze, che rimarranno dentro di noi e che nessuno potrà mai comprendere fino in fondo. Si viaggia per sé stessi e non certo per avere il plauso delle persone sedentarie, che magari considerano i viaggiatori come gente strampalata. L’amore per i viaggi ha un prezzo che si paga con tanti sacrifici: licenziamenti, permessi non retribuiti, separazione sia pure momentanea dalle persone alle quali si vuole bene, rischi di ogni genere, incertezza per ciò che accadrà al ritorno a casa… tutte cose che gli “altri” non sono in grado di comprendere né di provare; oppure, se le comprendono, non hanno la forza di affrontarle. Quando mi sento libero, mi sento partecipe della vita: non un robot con il cervello disseccato, privo di qualsiasi capacità di provare emozioni. Lo so che la libertà autentica è un’utopia, ma un poco in essa devo pur credere, perché c’è una possibilità d’essere libero. È giusto pensare al proprio benessere, ma ancor più giusto è sperimentare ogni tanto una vita colma di fascino e d’imprevisti.

Avere una famiglia limita la libertà del viaggio come tu lo intendi?

Chiunque interpreta la vita senza stare dentro a dei rigidi schemi, senza accettare il così fan tutti, dimostra di essere coraggioso e degno di rispetto. Pertanto non è detto che creando una famiglia sia sinonimo di arrendevolezza, seppure nel contempo io consideri che l’averla limiti la libertà in certi tipi di viaggi, però mi riferisco solo a quelli più ostici mentre per i viaggi tranquilli non c’è differenza. Avrei voluto essere assai più libero dai legami e da tutto, ma non ho osato farlo fino in fondo. Quante volte ero combattuto tra il fermarmi a lungo in certe località visitate e il timore di fare uno sbaglio!

La vita è come una camicia, ognuno ha la sua taglia e non ha senso volersi mettere per forza la camicia di un altro. C’è chi ama viaggiare e chi no, dando la priorità ad altre cose che ritiene più importanti. Ciò che conta è essere sé stessi senza indossare dei panni che non ci appartengono. Sembra una frase fatta, eppure di gente così ce n’è molta di più di quanto si pensi. Sono convinto che se si ha la voglia e la capacità di cercare, si può scoprire che di metodi giusti forse ce ne sono diversi: l’importante, quindi, è seguire quello che rispecchia di più il nostro stile di vita, ma senza pretendere che possa andare bene per tutti.

A distanza di decenni sono giunto alla conclusione che lo sbaglio è stato non ascoltare la mia vocina interiore, che imprecava di non avere fretta a tornare a casa preferendo casomai stare parecchio tempo qua e là senza tabelle da rispettare. È vero: in certi momenti e in certi luoghi avrei preferito fermarmi per almeno cinque o sei anni… e purtroppo non ce l’ho fatta perché, a volte, dentro di me avvertivo la necessità di tornare a casa mia ogni tanto.

Come sarebbe stato bello, però, impostare la vita in un altro modo, io invece avverto di aver realizzato una cosa a metà e di non essere andato oltre. E me ne pento. Avrei dovuto osare di più? Ho una famiglia e quindi non mi posso lamentare, ma a volte non è semplice dover sottostare quotidianamente a dei compromessi che spesso, però, ci aiutano a vivere in maniera tranquilla. Pazienza: è andata così… e non è poi male, nonostante tutto. Tiziano Terzani ha detto: La libertà e la felicità non vanno di pari passo. Aveva ragione, perché le due cose non possono andare di pari passo”.

C’è stato un periodo della mia vita dove ho puntato tutto sulla libertà, poi sono passato alla felicità ed è ovvio che il rammarico c’è sempre perché la libertà ha un peso molto più forte della felicità… e fa sognare posti lontani. Chi assapora la vita libera quando sarà vecchio non rimpiangerà le occasioni perse, come invece può succedere agli altri. La libertà è assai faticosa da raggiungere ma ha un fascino tutto suo, ed è ambita dai viaggiatori (non così per i turisti, che sono molto diversi dai viaggiatori… è una cosa risaputa). La felicità, al contrario, è più rapportata alla serenità del focolare domestico perciò teme gli imprevisti che sono bensì il sale e il pepe per chi ha le ali, per chi vive libero e all’avventura.

Aggiungo, riprendendo un vecchio spunto del mio “La via delle Indie in Vespa”, riveduto poi nei libri successivi, in cui dicevo che viaggiare veloci si diventa come dei pacchi postali, mentre il vero viaggio va assaporato con lentezza; il piacere della scoperta del mondo va sorseggiato piano e non trangugiato tutto in un colpo. Solo così il ritorno a casa al termine d’ogni viaggio diventa la fine di un sogno agitato, emozionante e irripetibile. Lo sostenevo una volta, ma ora, con un bel po’ di anni in più sul groppone, rimarco soprattutto quanto ho detto all’inizio pur tenendo ancora in grande considerazione il mio pensiero di allora, ossia che non sempre si apprezza di più il ritorno a casa al termine di lunghi viaggi. Dipende.

Che fine ha fatto la tua “200 Rally”, ossia la Gigia? L’hai abbandonata in una officina meccanica e te ne sei poi disinteressato?

La Gigia sta risorgendo. Giovedì, 4 marzo 2021, dentro la mia casella postale ho trovato una busta, con il mittente che proviene da Cermenate. Me l’ha spedita un mio vecchio amico (classe 1948) che non vedevo da un po’ di anni. Nella busta c’erano alcune foto e un foglio scritto a mano: «Te la ricordi? Non è forse la Gigia? Io l’ho riconosciuta per degli adesivi e delle particolarità. Se ancora t’interessa segnati questo indirizzo e il numero telefonico». Cribbio! Ho sbirciato meglio, ma le foto non mi davano certezze: potrebbe essere che sia lei, ma non ne ero del tutto convinto perché c’è differenza tra il vedere le immagini e l’oggetto dal vivo. Nel foglio c’era scritto che a Rovellasca si stavano facendo dei lavori di ristrutturazione in uno stabile e perciò c’era da liberare un seminterrato. Cosicché tra le innumerevoli cose accantonate era spuntata una Vespa non messa bene. Era senza targa. Caso vuole che un conoscente del mio amico, grande appassionato vespista, era venuto a saperlo e sul pourparler l’aveva riferito a lui. Incuriosito, era subito andato a vedere lo scooter e… l’aveva riconosciuto.

Scopriva che la Vespa era stata abbandonata lì da tanti anni e che era passata nella totale dimenticanza, anche perché era nascosta da diversa mobilia invadente. Due giorni dopo ero andato sul posto e, sì… era proprio la mia Gigia, sporca e sommersa dalle ragnatele, con la carrozzeria piena di graffi. All’inizio c’era un po’ di emozione, che però è durata poco perché mi sono chiesto: E adesso che ci faccio? Non m’interessa. Stavo quasi per dire di farne ciò che vogliono, quando all’improvviso ho pensato a una persona cui possa interessare questa cosa antica: ossia Fabio Cofferati, famoso per il suo cercare mezzi vecchi da mettere poi in funzione. Per fare ciò bisogna avere, oltre che la passione, una buona capacità meccanica giacché non è un lavoro semplice. Gli ho telefonato e Fabio ha acconsentito con entusiasmo. E così il 13 marzo era venuto a Milano e assieme ci siamo recati a Rovellasca con un suo furgone per caricare la Gigia. Adesso spetta a Fabio completare il miracolo e ci vuole pazienza, tanta fatica, determinazione, e non avere fretta… ma prima o poi sarà tutto finito; ho fiducia nelle sue capacità. Il ritrovo di una cosa cui non pensavo più, mi porta al lato concreto. Io la Vespa non l’avrei ripresa, ma il fervore di Fabio (che caratterialmente è molto diverso da me) mi contagia. Si dovranno sostituire entrambi i cofani e il parafango, essendo messi malissimo: di lavoro ce n’è, ma so anche quanto amore ci dedicherà per farla risorgere e correre come ai bei tempi. Non poteva finire in mani migliori: lui è il nuovo proprietario della Gigia, che ristrutturerà quando finiranno i festeggiamenti per il suo bel viaggio in Russia del 2021.

So che la Gigia ha un grosso valore sul mercato, per la sua storia, per ciò che rappresenta, e lo è ancora di più considerando che ho ritrovato perfino il libretto. Tuttavia è un argomento che non mi coinvolge: non voglio sbattermi, anche perché non saprei dove tenerla. Ho sì due box, ma in uno c’è la mia macchina e nell’altro c’è spesso quella di una mia nipote per quando viene a Milano. E non la metto in casa, perché è ingombrante.

Non hai avuto appoggi (neppure sostegni morali) da parte della Piaggio, ti sei chiesto il perché?

Eh, già; a volte mi si chiede come mai io non abbia avuto riconoscimenti da parte della Piaggio, soprattutto negli anni Ottanta dell’altro secolo. Può darsi che non siano stati graditi gli inconvenienti tecnici descritti ne “La via delle Indie in Vespa”. Almeno questo è quel che penso che sia, altrimenti non so che cosa possa esserci d’altro. Certo, se così fosse potrei dire che io non avevo a disposizione una Vespa nuova o comunque messa a punto dalla stessa Piaggio, com’è successo a un bel po’ di gente. Se fossi partito con uno scooter nuovo senz’altro sarebbe stato più facile e non avrei avuto tante noie meccaniche: insomma, sarebbe stato un viaggiare sul velluto. Oppure potrebbe essere che, nel 1983, uno dei motivi che fece da freno era una proposta che girava nell’aria (diventata poi legge nel 1986) dell’obbligo d’uso del casco, per cui i produttori di motocicli temevano una diminuzione drastica delle vendite. C’è da aggiungere che io sono un tipo scomodo, che non sa e non vuole arruffianarsi… e tutto ciò non crea buone premesse di avvicinamento al mondo Piaggio-Vespa. Si badi bene, però, che viaggiare al servizio degli sponsor non mi ha mai attratto e, pertanto, non ho mai chiesto una Vespa alla Piaggio e neppure la loro assistenza tecnica e organizzativa. L’unico aiuto che avrei gradito sarebbe stato quello editoriale, e nient’altro.

A questo proposito ricordo che cinque anni e mezzo dopo la conclusione del mio viaggio, con l’amico e giornalista Luciano Baggioli nell’ottobre del 1983 andammo in treno a Genova, dove allora c’era la sede dirigenziale della Piaggio. Avevamo un appuntamento ottenuto con difficoltà e grazie all’interessamento di Sergio Stocchi, amico del Presidente dell’Automobile Club Milano. Chiedemmo un aiuto per la mia iniziativa editoriale e proponemmo l’acquisto di alcune centinaia di copie de “La via delle Indie in Vespa” pubblicato una manciata di mesi prima. Piaggio le avrebbe poi distribuire in tutte le sue concessionarie (e anche nei “Vespa Club”), perciò non si sarebbe trattato di una cosa fantascientifica poiché la cifra non sarebbe stata impossibile. A Genova avevamo avuto la sensazione che le cose sarebbero andate a buon fine: belle parole, complimenti, la cosa è fattibile, eccetera… eccetera.

Purtroppo, però, il progetto non andò in porto. Tornato a Milano, il 18 maggio successivo, proprio nel giorno del mio 32° compleanno, ricevetti un telegramma: «Spiacente comunicarle che, causa difficoltà budget, non possiamo intervenire come avremmo voluto». Sfortuna? Mancanza di tempestività? Insensibilità da parte Piaggio? Forse mi sarei dovuto muovere in modo diverso, forse i tempi erano prematuri… ma mi rimase in bocca una grande amarezza. A prescindere da questa vicenda, non ho mai avuto fortuna nella richiesta degli aiuti finanziari-editoriali che mi sarebbero stati necessari e assai graditi. Beh, a pensarci bene non ho neanche mai insistito più di tanto e ai primi “ni” già mollavo la presa. Caparbio nei viaggi, ma timoroso nel bussare alle varie porte perché non mi va d’importunare troppo la gente: non sono un buon venditore di me stesso.

A livello umoristico potrei far notare che forse sia sempre io a sbagliare in qualcosa, magari con la tempistica: nel 1983 non era il momento giusto per fare certe proposte editoriali e, a quanto pare, anche il 2022 non era ancora il momento giusto per via del ‘Covid 19’, della guerra in Ucraina e della crisi. Non ne azzecco una.

Ti sei ispirato a Roberto Patrignani ed eri andato a trovarlo a casa sua, a Mandello del Lario: gli avevi chiesto dei consigli per il tuo viaggio in India?

La prima volta che andai da Roberto Patrignani fu nel novembre del 1976, dopo avere ripreso la Vespa a Savona arrivata via nave dalla Norvegia, e comprai due suoi libri, compreso “In Vespa da Milano a Tokyo”. Quel giorno gli esposi la mia idea di andare in India, con la Vespa che in quel momento l’avevo posteggiata fuori dal cancello di casa. Lui volle vederla, dopodiché mi disse una cosa che ancora oggi rammento spesso: “L’importante è che non ti limiti solo a sognarlo, questo viaggio”. Ricordo che di getto gli risposi che io preferivo sognare cose alla mia portata, perché vivere sognando a occhi aperti è inutile: bisogna cercare di realizzare ciò che si desidera se davvero lo si desidera… affinché si eviti che la luna diventi un sogno per chi, in realtà, non ha sogni. E quel viaggio verso l’India non era la Luna, ma una cosa fattibile. A queste parole, lui mi guardò con un’aria perplessa… e chissà che cosa pensò. Forse lì per lì devo essere stato un po’ troppo sicuro di me, e quindi davo l’aria di non considerare le difficoltà su ciò che mi accingevo a fare. Inconsciamente non le soppesai per non avere troppa ansia addosso. Gli alibi non mi piacciono. Preciso che da Patrignani non ci ero andato per avere consigli sul viaggio che volevo fare, non era il caso, era più altro il piacere di parlare con una persona che ammiravo per ciò che ha compiuto, questo sì. Di quel giorno ricordo che accanto a due cani maremmani – buonissimi – c’era un bambino di tre anni, che gironzolava lì attorno: era il figlio Franco (che poi conobbi a Salsomaggiore Terme, nel febbraio 2019). Da Roberto Patrignani andai altre tre volte, l’ultima della quale nell’autunno del 1978. E poi basta. La penultima volta che ci andai, però, fu giovedì 20 luglio 1978, nel mio ultimo giorno del viaggio per l’India. Ancora prima di rientrare a Cermenate, nel mio paese nativo distante una cinquantina di chilometri da Mandello del Lario, con la Vespa carica di polvere e di 23mila chilometri volli ringraziare Patrignani per gli incoraggiamenti che mi ha dato prima della partenza, recandomi quindi a casa sua, ma purtroppo non lo trovai perché sua moglie disse che in quei giorni lui era a Parigi (mi sembra di aver capito così): peccato!

A 61 anni hai fatto il Cammino di Santiago de Compostela, invitato da tua figlia che era adolescente, affrontato entrambi non da credenti. Come è nata l’idea e com’è stato l’approccio in un’esperienza del tutto nuova per te, vissuta con tua figlia?

Papà, facciamo il Cammino di Santiago de Compostela?” Questa è stata la richiesta che mia figlia Chiara fece un anno prima. L’idea di questa escursione, infatti, è nata da lei (forse entusiasta per delle brevi scampagnate fatte nel luglio 2012 in Abruzzo, dove ho un piccolo appartamento), che mi ha proposto d’intraprendere al termine della scuola dell’anno successivo questo percorso. Il fatto che a suggerirlo sia mia figlia è importante, ed è indicativo che preferisca proporre certe camminate anziché cose più divertenti. Il “perché” non gliel’ho chiesto, ci ho pensato dopo, quando siamo tornati, quando ho sentito l’importanza dell’esperienza sulla pelle; ed è stato a quel punto che mi sono chiesto non solo perché il Cammino anziché Rimini?”, ma anche “perché chiederlo a me?” A Chiara non mancano gli amici e non siamo dei genitori proibitivi… io di certo avrei rotto le scatole per andare con i miei amici. In ogni modo la richiesta è stata accolta e mantenuta, per un anno, fino alla partenza, senza tentennamenti. Eppure Chiara non ha rinunciato a coinvolgere i suoi amici, ma erano loro che non avevano intenzione d’essere coinvolti nella camminata. Questo particolare mi riporta a quando ero giovane e volevo coinvolgere qualcuno nei miei viaggi: vedo delle analogie tra le due epoche e non penso per niente che sia un dettaglio generazionale.

I Cammini verso il capoluogo della comunità autonoma della Galizia forse sono fatti per la maggior parte da persone motivate dalla fede cristiana. Nel nostro caso, invece, abbiamo affrontato questo Cammino in maniera laica e senza alcun trasporto religioso, non essendo credenti (la nostra Compostela consegnataci è quindi diversa da chi l’ha fatto per motivi di fede). Ritengo che ognuno lo deve vivere come vuole, perché anche chi è ateo può sentire sue certe sensazioni, senza essere prerogative di nessun altro. Perciò non mi pongo il problema, perché è inesistente e non do ascolto a chi lo alimenta. C’è poco da scegliere: quasi tutti i vecchi Cammini (Via Francigena inclusa) sono nati come pellegrinaggi religiosi. E allora a questo punto chi non è credente deve solo andare nei boschi o nei sentieri di montagna?

Ci sono itinerari dal sapore antico e leggendario che appartengono all’umanità, non più solo alle religioni, anche perché la situazione non è più come quella originaria. È con queste riflessioni che ho inteso affrontare il Cammino verso Santiago de Compostela, pronto a goderne il fascino sia della natura sia delle opere umane a carattere urbanistico. Il Cammino fatto con Chiara è stata un’occasione per fare qualcosa assieme, padre e figlia, che è servita forse per conoscerci un pochino di più. L’adolescenza è veloce, tormentosa, immediata… e vuole risposte, atti concreti e stimoli emotivi. Il genitore, invece, ha il dovere di essere presente e mettersi in gioco con coraggio e partecipazione, e il genitore Giorgio è stato quel ragazzo là, che metteva i viaggi prima di tutto. Anche se alla fine non mi reputo un buon genitore, perché dovrei essere più espansivo e non chiudermi a riccio come faccio di solito. Ma io sono fatto così e le cause forse risalgono alla mia tenera età, tuttavia so che è una mia lacuna ormai cronica. Mi assumo le mie colpe e non cerco scuse. Di certo io non sono mai stato un modello di riferimento per mia figlia, tutt’altro. È ovvio che sia così, perché non abbiamo lo stesso carattere e neppure le aspirazioni sono simili.

Consideri il Cammino l’avventura, o eventualmente l’esperienza più importante che tu abbia vissuto, magari alla pari di quell’entusiasmante viaggio in India fatto con la Vespa?

Calma e stiamo con i piedi per terra. Intanto diamo il valore giusto alla definizione di avventura: secondo me l’avventura c’è quando si sfida l’ignoto e in un Cammino verso Santiago de Compostela d’ignoto non c’è niente, perché si sa benissimo a quali distanze ci sono gli alloggi dove pernottare, e per di più si segue un percorso perpetuamente indicato dalle frecce gialle… lasciando poco margine agli imprevisti.

Io penso che l’avventura viva diametralmente opposta alla programmazione. Sull’esperienza più importante della mia vita, anche qui invito alla calma giacché ne ho tante altre da incorniciare. In me, dunque, soprattutto restano vivi nella mente alcuni particolari momenti, certe forti emozioni sprigionate in tre continenti: andare con la Vespa in India, l’autostop fatto nel bel mezzo del Sahara, l’attraversamento dello stesso deserto su un piccolo camion con ben cinquanta tuareg a bordo, l’autostop nella Patagonia, l’attraversata in autostop dell’intera isola fredda e ventosissima della Terra del Fuoco fino a Ushuaia, e così via.

Sono dell’idea che ogni cosa debba essere collocata nella sua giusta posizione e il Cammino di Santiago era una perla che mi mancava e perciò acquista la sua importanza per me, soprattutto per averla fatta a sessantuno anni, e ne sono contento di averla assaggiata con mia figlia. Pur sapendo che è pur vero che ogni Cammino è una storia a sé e si differenzia dagli altri, io non ripeterò questa esperienza, come non ho ripetuto le precedenti che ho vissuto, cercando pur sempre – per quanto mi sia ancora possibile, constatando che la clessidra anagrafica procede senza intoppi – di rimanere fedele al mio spirito nomade rimasto… seppur ormai molto assottigliato. A me piacciono stimoli nuovi e perdo interesse per le repliche, per il copia e incolla, questo da sempre anche quando ero giovane. Del resto fare una cosa di cui so già come va a finire, è come rileggere lo stesso giallo sapendo sin dall’inizio chi è l’assassino: non c’è pathos in ciò. Forse sono fatto male, ma sono così.

Se ci fosse un’opportunità oggi gradirei, per esempio, volare sopra le Alpi in mongolfiera, oppure fare lunghi percorsi europei su un calesse e via dicendo… insomma sarei attratto da cose che non ho mai fatto. Ma eviterei altri ampi giri in Vespa o dei lunghi Cammini storici, perché conosco già le loro sfumature. Tutt’al più preferisco fare delle camminate sul Gran Sasso o sulle montagne lecchesi, ma non quelle classiche troppo affollate di pellegrini: no, non è più il caso. Eviterei pure i viaggi in autostop, giacché ne feci in Europa, nel Kurdistan turco, nel sud del Sud America (una cosa però da non prendere più in considerazione, sia per la mia età sia perché non è più il momento).

A proposti dell’Iran: in televisione si sente dire che il velo fu messo in uso con l’avvento di Khomeini e che invece, quando c’era lo Scià, non solo non c’era ma addirittura s’indossavano le minigonne. Oltre a ciò, su internet circola pure una foto con delle ragazze su una spiaggia in bikini, sostenendo che sia stata fatta in Iran nel 1970. Secondo te è vero, visto che all’epoca dello Scià eri lì e perciò ne eri testimone?

Noto che quando si parla dell’Iran c’è un po’ di confusione, facendo circolare tante falsità. Le ho sentite anch’io quelle baggianate e ho anche visto quella foto appioppandola alle usanze iraniane nell’epoca dello Scià. Stiamo scherzando? Si tratta di una foto falsa. Lo dico per esperienza diretta e non per sentito dire. Io sono stato in Iran per sette mesi, tra il 1977 e il 1978, e deduco che il chador era in uso dappertutto anche all’epoca dello scià Mohammad Reza Pahlavi, tranne che nella sola Teheran (l’unica eccezione).

Comunque di minigonne in quell’epoca non ne vidi: non so dove l’abbiano invece vista quelli che ne parlano! Salvo che si andava nei night-club della capitale, ma lì non fa testo. Oppure le minigonne si vedevano sì, soltanto in luoghi privati e ben nascosti dagli sguardi esterni, ma mai in luoghi pubblici. Mentre, riguardo ai bikini, non li ho mai visti e scene come in quella foto neppure: in spiaggia le donne erano tutte ben coperte e neppure gli uomini se ne stavano con il solo costume da bagno. Nei cantieri non c’era un solo uomo che lavorava con i pantaloni corti, neppure quando la temperatura superava i 40°… figuriamoci le donne. Addirittura non era ben visto chi osava ascoltare musica attraverso una radio a transistor. Questo lo dico affinché non si dipinga la dittatura dello Scià come se fosse stata una democrazia: non diciamo balle, per favore.

È inequivocabile che le ragazze che appaiano in quella foto non siano affatto iraniane, ma europee… quindi è una cavolata sostenere che le iraniane avessero dei comportamenti così liberi, come alcuni sostengono. In quegli anni c’era il flusso hippy che si spingeva fino all’Afghanistan, e circolavano voci che i nativi erano infastiditi da alcuni giovani europei che in certe zone montane gironzolavano perfino nudi. Questi stupidi comportamenti erano mal visti dalla gente del posto; dico stupidi perché avevano dato sfoggio alla totale impudicizia, nella maniera più irrispettosa verso gente islamica e pudica, e che forse, con il senno di poi, foto scattate all’interno di queste comunità avrebbero dato luogo in Occidente a un’interpretazione distorta del regime di Reza Pahlavi. Chiunque, nel vedere certe foto, potrebbe pensare che allora tutto fosse possibile… senza capire chi fossero i protagonisti. Un conto è rapportarsi con i comportamenti dei nativi, ben altro è raccontare i comportamenti di certi occidentali.

A voler essere precisini, si può rimarcare che l’unico luogo iraniano dove c’erano le gonne appena sopra le ginocchia… era Teheran. Ma attenzione: la gonna appena sopra le ginocchia non è considerata minigonna. Infatti, per essere tale la gonna ha l’orlo inferiore che arriva quindici centimetri sopra la linea delle ginocchia, mostrando quindi parte della coscia… ed io di cosce al vento nella capitale iraniana non ne ho mai viste, eppure c’era lo Scià. Tutt’al più, le uniche minigonne che mi è capitato di notare erano quelle… che erano indossate sopra i pantaloni: vogliamo discuterne? E il chador? Nel 1941 la legge che proibiva l’uso del velo fu abbandonata, anche se virtualmente rimase intatta durante la dinastia Pahlavi. Seppur è vero che tra il 1941 e il 1978 non era più considerato offensivo portare il chador, era tuttavia tollerato e diffuso. C’erano ragazze provenienti da famiglie tradizionali che uscivano da casa con il chador e arrivavano a scuola senza, per indossarlo di nuovo quando tornavano a casa. Inoltre quando si era in pubblico veniva messo, ma non tra le mura domestiche (che tra l’altro erano sempre alte).

Chiariamo una cosa: non voglio prendere posizioni tifando per un prima o un dopo il periodo dello Scià, perché sono discutibili entrambi. Ciò che voglio far notare è di non pensare che esistono soltanto un colore bianco e uno nero, bensì di sfumature qui ce ne sono in abbondanza. Mi sento un cronista che scrive ciò che vede e sente, ma che evita d’inventare cose irreali per far piacere agli altri. Le falsità non m’interessano. La cosa buffa è sentire certi proclami da chi in quegli anni non era neppure nato o era in età prescolare, oppure non era neanche lì… quindi non testimone degli eventi. E allora, su che basi sono avvallate certe considerazioni? Solo sul passaparola del sentito dire? Tiziano Terzani avrebbe molto da ridire. Si potrebbe obiettare che un conto è tenere certi comportamenti in modo spontaneo e ben diverso è quando è imposto. Mah, sarebbe come dire che in Italia non sia obbligatorio mangiare la lasagna quando si sa che è di uso comune: in concreto il chador lo indossavano tutte anche quando c’era lo Scià, tranne in una parte di Teheran. L’obbligo su una questione che è già diffusa sempre e ovunque, per cultura e tradizione popolare, incide nulla ed è come se non ci fosse. C’è però da dire che in quest’ultimo periodo le cose stanno cambiando in maniera radicale: le donne giustamente (e con coraggio) protestano contro tutti i divieti e perciò la situazione è incontrollabile. A ogni buon conto questa analisi l’ho descritta – seppur in parte – nell’ultimo mio libro.

Di recente c’è stato qualcosa di gratificante che ti abbia dato soddisfazioni per tutto ciò che hai fatto, per i tuoi viaggi, per i tuoi libri, per la tua simbiosi con la Vespa?

Sì, c’è una cosa abbastanza recente che m’inorgoglisce. Nel gennaio 2022 il “Vespa Club d’Italia” ha pubblicato “VESPA RALLY”. L’autore è Roberto Donati (responsabile allo sviluppo della crescita culturale e storica del “Vespa Club d’Italia”), e il libro è stato stampato in 80.000 copie da distribuire in omaggio nei 583 “Vespa Club”, dove i 77.000 tesserati le hanno ritirate. Ha 128 pagine tutte a colori, per un formato ‘A4’, e due di queste (la 114 e la 115) sono dedicate a me: peccato che il retino del fondo sia troppo forte il che offusca un po’ il testo, ma si tratta di una frivolezza e nulla più. Al di là di ciò nella copertina cartonata, tra le varie foto, c’è spazio anche per la mia Gigia e perciò ne sono onorato. Ringrazio Roberto Donati per il regalo che mi ha fatto.

Ecco, adesso posso fare un ampio resoconto con ciò che ho avuto dal pianeta Piaggio-Vespa in un arco di tempo lungo quattro decenni. Oltre ad avere dunque avuto spazio in “Vespa Rally”, c’è da aggiungere la prefazione di Riccardo Costagliola (Presidente della “Fondazione Piaggio” e quindi del “Museo Piaggio”) per il mio 6° e ultimo libro, pubblicato nel luglio 2022 e poi nel giugno 2023. Oltre alla prefazione cito Roberto Leardi (Presidente del “Vespa Club d’Italia”) che ha prenotato, inserendosi nella lista dei pre-acquirenti, una copia sempre di quel libro. Va detto, però, che si è trattata di una scelta personale e non dettata dal suo ruolo. E va bene lo stesso, anche se (vabbè, lasciamo perdere). Basta, oltre a ciò non c’è altro.

Andare al “Museo Piaggio” di Pontedera è una cosa che non mi capiterà mai, perché ho dei buoni motivi personali per non recarmi. Lì mi sentirei fuori posto nonostante che nella prefazione del mio libro, Costagliola concluda con queste parole: «Quando nel 2018 abbiamo inaugurato l’ampliamento del Museo Piaggio avevamo cercato Giorgio, volevamo che anche lui, grande mito di tutti i vespisti, partecipasse alla nostra festa ma per una sfortunata serie di coincidenze non ci siamo trovati. Lo abbiamo fatto in occasione della pubblicazione di questo libro ed io, oltre al piacere di aver trovato in lui un nuovo amico, credo ancora nel miracolo di potere prima o poi esporre nella nostra ‘Sala Vespa’ la sua ‘200 Rally’.»

Ma il miracolo non ci sarà, perché la Gigia ora ha un nuovo proprietario, di Salsomaggiore Terme, ed io non ho più voce in capitolo.

In quest’ultimo periodo qual è l’obiettivo raggiunto a cui tenevi di più?

Per il 2022 avevo in testa un obiettivo preciso e l’ho centrato… seppure con grande fatica. Finalmente, il 22 luglio 2022, la ‘Libreria Editrice Urso’ ha finito di pubblicarmi “MEZZO SECOLO RINCORRENDO IL MONDO – NEI VIAGGI LA VESPA FU IL PRIMO AMORE… POI VENNE IL RESTO”. E così si è andati in stampa con un volume corposo, composto da 552 pagine per un formato di cm 17 x 24: cosa che ha fatto scappare tutti gli editori (tranne uno) per i forti costi, con il timore – assai concreto – di non recuperare le spese fatte.

È stata una mia scommessa contro tutto e tutti, o quasi. Dall’inizio ho contato sulla fiducia di appena tre persone, le uniche che all’inizio (più di un anno prima) hanno creduto in me quando era ancora una semplice idea: parlo di Giuseppe Pizzo, Andrea Costa e Roberto Pacor. Nessun altro era al corrente del mio progetto. I loro consigli sono stati preziosissimi e Pizzo ha fatto un capolavoro: ha messo in discussione la mia precedente copertina proponendone una con un taglio diverso e che è subentrata con la sostituzione, diventando quindi quella ufficiale.

Oltre a loro c’era stato il vuoto, alimentato soprattutto dall’esagerato numero di pagine non consono con i libri moderni. Un editore mi aveva detto che il mio è un prodotto anti commerciale e nel mercato attuale è di difficile collocazione. È una cosa troppo voluminosa e quindi scomoda da vendere, perché le regole dell’editoria italiana attuale – che si dirige in libri sempre più corti a causa del poco tempo del lettore medio d’oggi – impongono dei tetti massimi da non superare. Tutto ciò lo sapevo già in anticipo, tuttavia volevo pure infrangere il pensiero comune considerando che solo i pesci morti nuotano seguendo la corrente.

Nonostante la missione impossibile io non ho ceduto: del resto sono sempre stato un tipo poco arrendevole, sia nei viaggi sia nei progetti… e non mi spaventano le avversità. Questo libro però non sarebbe nato senza un doppio contributo: dapprima da parte di 35 persone con le loro prenotazioni alla cieca, e soprattutto grazie a Mario Giachino dell’ASSOCIAZIONE SOCIALE CULTURALE STRADE DA MOTO che ha prenotato 70 copie. È merito dell’Associazione motociclistica che è andato in porto questo progetto cui ci tenevo tantissimo.

Adesso rispondo a una domanda che mi è stata fatta da più persone, ossia perché un lettore dovrebbe essere ispirato a comprare questo libro? Dico che questo è il mio migliore pubblicato, il più bello, essendo un armonioso intreccio delle precedenti pubblicazioni e con le innumerevoli modifiche certosine che lo arricchiscono. Grazie all’esperienza acquisita questo è il più completo e il più curato… di parecchio rispetto a prima. Non farò altri libri sui viaggi perché è la mia opera omnia; è il massimo che io possa fare, più di così non ne sarei capace.

Insomma, raggruppa mezzo secolo della mia vita ed è perciò quello più rappresentativo, il mio ultimo che parli di viaggi (e non solo), di conseguenza non ho potuto evitare di mettere tanta legna sul fuoco perché non ha senso ridurlo. Oltre ai viaggi faccio anche delle analisi, ed io penso che possa essere una miniera d’informazioni accompagnati, presumo, da una buona lettura. C’è un capitolo finale in cui c’è perfino un racconto filosofico per adolescenti, che potrebbe stuzzicare.

C’è, però, un’altra cosa importante da aggiungere: a fine giugno 2023 è stata pubblicata la sua 2ª edizione, stavolta con ‘Youcanprint’ (di Lecce). Una ristampa è l’occasione per qualche modifica (seppur leggera) e, infatti, in quest’ultima edizione c’è stato un aumento di 8 pagine portandole quindi a 560 mantenendo comunque lo stesso formato: cm 17 x 24. ‘Youcanprint’, però, ha aggiunto altre 4 pagine (le ultime in fondo) perciò il totale diventa 564. In questo libro c’è un calcolo da fare per me del tutto nuovo, con un numero di pagine divisibile per 4, anziché per 8 o per 16 come facevo di solito.

Dei miei libri ce ne sono due cui tengo tantissimo, mettendo in secondo piano gli altri quattro: parlo di “PAPÀ, ANDIAMO A SANTIAGO? – PADRE E FIGLIA SUL CAMMINO PORTOGHESE”, per la sua bellissima impaginazione, con le pagine interne del tutto colorate, fatta da mia moglie Marika – e di quest’ultimo pubblicato nel 2023 (perché raggruppa tutto quanto, e inoltre è sia scritto sia impaginato meglio degli altri). Curioso che gli ultimi miei tre libri pubblicati, compreso quello del Cammino, siano tutti dello stesso editore: ‘Libreria Editrice Urso’ di Avola (in provincia di Siracusa). Aggiungo che questa 2ª edizione con ‘Youcanprint’ è il migliore in assoluto, e supera perfino la 1ª edizione perché è ancora ben più curata; eppure è quello che vende di meno: me ne faccio una ragione. Sì, lo so, per evitare questa linea fallimentare dovrei presentarlo qua e là come fanno tutti, ma non mi va di sbattermi. Sinceramente non mi soddisfa né fare le presentazioni del mio libro né di esserci alle presentazioni di altri autori, neppure se fosse nella mia Milano. È sbagliatissimo comportarsi così… però io non sono normale.

Vabbè, sul lavoro della copertina questa volta ho voluto coinvolgere mia moglie… assai più esperta di me con le impaginazioni editoriali (avendolo fatto di professione). Sia chiaro, comunque, che mia moglie non aveva visto niente dell’impaginazione interna… ma la copertina è una cosa ben diversa ed io qui ho i miei limiti. Alla fine nella nuova copertina si vede il lavoro di una mano esperta (di cui io non ne sarei stato in grado di fare così bene). Per le impaginazioni interne, invece, so cavarmela senza aver bisogno di nessun aiuto: l’interno è tutto mio, al 100%… ed è il 3° libro che impagino da solo, ogni volta migliorando. E pensare che il primo libro da me impaginato è stato nel 2006 per ‘Giorgio Nada Editore’… un nome di spicco e punto di riferimento per tutti gli appassionati di motori. In quell’occasione impaginai tutto l’interno, ma non la copertina… cosa che invece ho fatto con gli altri miei libri (presentando un lavoro completo).

Con quali consigli vogliamo concludere questa chiacchierata?

Che consigli dare? Non so. Io ho l’abitudine di riportare su dei quaderni le sensazioni e la cronologia di qualsiasi viaggio, ben sapendo che ci sono viaggiatori più esperti di me e fin troppi “maestri” che trattano l’argomento dei viaggi. Tuttavia, nelle pagine dei miei libri accenno a quanto ho sperimentato personalmente, invitando a considerare che è sempre un buon consiglio quello di non prendere tutti i consigli alla lettera, ma di adattarli alle personali esigenze e al proprio modo d’essere e di pensare. È da evitare il grave errore di partire senza avere almeno nozioni elementari in fatto d’igiene, alimentazione e abbigliamento. Allo stesso modo non è bene iniziare qualsiasi viaggio con eccessive preoccupazioni: … ogni avventura va vissuta quanto più serenamente possibile, al caso diventando anche un po’ fatalisti. Ciò che riporto può darsi che sia scontato, e per lo più superfluo agli occhi degli esperti viaggiatori. Voglio però sperare, che, tra i lettori, ci sia qualche viaggiatore in erba desideroso di apprendere cose che anch’io avrei gradito conoscere agli inizi del mio girovagare. Se gli “esperti” proprio si annoiano nella lettura di quelle righe… lascino stare, senza però dimenticare che anche loro tempo fa erano, come tutti all’inizio (io compreso), degli sprovveduti.

Inoltre, Giorgio Càeran, ricorda:

Ho pubblicato sei libri: “La via delle Indie in Vespa” (1983, 224 pagine – Edizioni Càeran, con la prefazione di ARMANDO BOSCOLO che all’epoca era Direttore della rivista ‘Motociclismo’); “Giramondo libero – In viaggio con la Vespa o con lo zaino” (2006, 384 pagine – Giorgio Nada Editore, con la prefazione di SERGIO STOCCHI); “È meglio che vada sulle vie del mondo – Dalla Vespa allo zaino, dal sacco a pelo al trolley” (2020, 540 pagine – Aletheia Editore); “Una Vespa, uno zaino, un sacco a pelo, un viaggio” (2020, 280 pagine – Libreria Editrice Urso); “Papà, andiamo a Santiago? – Padre e figlia sul Cammino Portoghese” (2021, 160 pagine tutte a colori – Libreria Editrice Urso, con la prefazione di LUCA GIANOTTI, guida di viaggi a piedi e tra i fondatori della Compagnia dei Cammini); “Mezzo secolo rincorrendo il mondo – Nei viaggi la Vespa fu il primo amore… poi venne il resto” (luglio 2022, 552 pagine – Libreria Editrice Urso, con le prefazioni di RICCARDO COSTAGLIOLA, Presidente Fondazione Piaggio e quindi del Museo Piaggio, e di LUCA GIANOTTI (tra i fondatori della Compagnia dei Cammini); e la 2ª edizione  dell’ultimo libro (2023, 564 pagine – Youcanprint).

E adesso? Beh, con i libri ho chiuso: non ne pubblicherò altri… però invito chiunque a vedere due miei Blog, il più vecchio e il più recente: “Viaggi, libri e curiosità” (https://giorgiocaeran.blogspot.com/ ) e “Mezzo secolo rincorrendo il mondo” (quest’ultimo ha il titolo omonimo del mio sesto libro: https://caeran-libro-da552pagine.blogspot.com/).

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